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Il business del randagismo


Approfittando dell’incapacità delle Amministrazioni locali nel mettere in atto soluzioni che tengano conto del benessere degli animali, e della conseguente scarsità di strutture pubbliche, alcuni privati hanno costruito la loro fortuna grazie a convenzioni milionarie con le stesse Amministrazioni.

Aggiudicandosi la gestione dei randagi con gare d’appalto al ribasso d’asta, cui corrispondono strutture fatiscenti, i gestori di “rifugi/canili” privati possono contare su un contributo che va da 2 a 7 € al giorno per ogni cane e il totale può giungere a cifre elevatissime, che alimentano un giro di affari stimato intorno ai 500 milioni di euro l’anno.

Diventa chiaro pertanto l’interesse nel settore anche da parte di persone senza scrupoli che mirano al massimo lucro, non curandosi del benessere degli animali ospitati in veri e propri lager in cui è impedito l’accesso a chiunque e dai quali gli animali non usciranno mai!

Cani denutriti, malati, abbandonati, chiusi a vita in gabbiette miserabili, spenti. L’immagine è quella del canile-lager. Ogni tanto un servizio al tg racconta che la Forestale è arrivata e ne ha sequestrato uno. Già, ma perché? Perché dietro i cani randagi in Italia c’è uno sporco business. Anzi, sporchissimo.

Come spesso succede con le storie italiane, si comincia animati dalle migliori intenzioni e si finisce in un buco nero. Con i cani randagi, ad esempio, nel 1991 si decide che non devono più essere soppressi, ma ospitati in strutture pubbliche, ben tenuti, sterilizzati, in attesa di una famiglia che li prenda in affidamento o che morte naturale sopravvenga. Siamo finiti, 16 anni dopo, che ci sono circa 500 canili privati che tengono in gabbia 230 mila cani (dati della Sanità), stipulando grasse convenzioni con Asl o Comuni. Stima ufficiale del giro d’affari annuo, 500 milioni di euro. Un fiume di denaro pubblico se ne va dietro ai randagi. E il peggio deve ancora venire.

Per amaro paradosso, più un cane è malnutrito, più il titolare del canile ci guadagna con la cresta sulle rette. Ergo, mangiano poco o niente. Prima un cane muore, meglio è: il titolare guadagna 50/75 euro ogni carcassa smaltita. Prima si libera un posto nel canile, e un altro cane viene «accalappiato», anche se poi magari è semplicemente un cucciolo fatto nascere ad hoc, meglio è: il titolare del canile guadagnerà altri 30/45 euro per l’accalappiamento. Ci sono canili dove ogni anno muore la metà dei cani e subito li rimpiazzano. Ecco spiegato il giallo delle cifre stratosferiche.

Il business dei canili è questo. Più è veloce il turn-over, più c’è da diventare ricchi. L’ultimo sequestro è di qualche giorno fa, a Taranto. Se ne occupa una sezione della Forestale, il Nirda (Nucleo investigativo per i reati a danno degli animali). Il 45% dei 600 cani «ospiti» era affetto da infezioni; una grande parte aveva tumori; quasi tutti i maschi non erano stati sterilizzati. E poi tantissimi erano zoppi, «presumibilmente a causa del pavimento dei box, in terra e pietre affioranti». E ancora: reti sconnesse, punte acuminate, magazzino del cibo infestato da topi, nessun riparo contro le intemperie. In una fossa comune poco distante gli esperti della Forestale hanno trovato un centinaio di carcasse. Di veterinari, ovviamente, nemmeno a parlarne. Ora i titolari sono indagati per diversi reati, dal maltrattamento alla detenzione di animali in condizioni inidonee, alla gestione di discarica abusiva e smaltimento illegale di rifiuti speciali. Ed è di 15 giorni fa il sequestro di altri due canile-lager in provincia di Frosinone. Altri 700 cani trovati in condizioni miserrime: box piccoli e sovraffollati dove finivano senza distinzione cuccioli e adulti, sani e malati. Cibo poco e uguale per tutti. Pulizia sommaria una volta al giorno con la pompa a pressione e per il resto vivevano negli escrementi. E morivano.

Il sindaco di Sgurgola, Luciana Perfetti, è stata nominata custode giudiziaria: «I canili - racconta - secondo la legge dovevano essere un punto di transito. Un qualcosa di temporaneo ed eccezionale. Invece la realtà è un po’ diversa. E’ un fatto che qui fosse poco il personale addetto alla cura». Un eufemismo: c’era un unico addetto per tutti quei cani.

Tutta questa crudeltà, questo abbandono, non si spiegano però se non si guarda al business che prospera dietro i canili. Come racconta con chiarezza Maria Cristina Salvucci, presidente di una combattiva associazione animalista, la Canili del Lazio Onlus: «In alcune strutture i cani dormono sul cemento, mangiano crocchette che vengono gettate per terra e dividono la gabbia con 10 o più animali. In queste condizioni le leggi del branco sono durissime e solo i più forti riescono a mangiare e sono destinati a sopravvivere. Almeno fino a quando non venga accalappiato ed introdotto nel gruppo un cane più forte. I combattimenti e gli sbranamenti sono all’ordine del giorno e rappresentano una delle cause principali di morte».

Fin qui, però, potrebbe essere una terrificante vicenda di incuria. A forza di risparmiare su tutto, si finisce per far vivere male (e morire) decine di migliaia di cani. Ci sono però alcuni dati che fanno riflettere. Com’è possibile che in Puglia ci siano 61 mila cani chiusi in gabbia a fronte di 142 mila registrati in famiglia (quasi uno su due), e che in Campania i cani accalappiati siano 81 mila contro 223 mila (stesse percentuali), mentre in Toscana sono appena 4 mila contro 357 mila (quasi uno su 100)? Oppure che in Lombardia ci siano 2600 cani in gabbia e 413 mila in famiglia (quasi uno su 200 mila)? La risposta è semplice. «Purtroppo al Sud - dice l’onorevole Jole Santelli, che ha presentato una proposta di legge per riformare il sistema - molti di questi canili sono di fatto in mano alla criminalità e le Asl, per forza di cose, non sono in grado di effettuare i controlli».

Già, questa ormai è materia di polizia. Maria Rosaria Esposito guida il Nucleo investigativo del Corpo Forestale. «Su questo sottobosco di situazioni che si sono venute a creare - racconta - stiamo effettuando un monitoraggio su base nazionale. Finora siamo intervenuti un po’ dappertutto: nel Lazio, in Friuli, in Veneto, Emilia, Toscana, Marche, Campania e Calabria. C’è un fiume di denaro pubblico che finisce da queste parti. E noi stessi non sappiamo quanti siano i canili convenzionati. Per fortuna ci sono moltissimi volontari che ci aiutano con un flusso continuo di denunce».

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